lunedì 27 febbraio 2017

Plutarco di Cheronea


Plutarco (gr. Πλούταρχος, lat. Plutarchus). - Scrittore greco (CheroneaBeozia, 50 d. C. - ivi dopo il 120). Studiò aAtene presso il platonico Ammonio, fu più volte a Roma, dove ebbe amici illustri,poi arconte in Cheronea, poi sacerdote del tempio di Delfi (dal 95 alla morte). A lui sono stati attribuiti circa 250 titoli e se alcune opere certamente non sono autentiche, di altre si dubita. Le più importanti: Opere morali (τὰ ἠϑικά) e Vite parallele (Βίοι παράλληλοι). Le opere morali, raccolte in Corpus da Massimo Planude(1296), si sogliono distinguere in dialoghi e diatribe; il titolo tràdito Moralia è alquanto riduttivo, perché accanto a problemi di specifico carattere etico-filosofico vengono affrontati e discussi moltissimi e varî argomenti di storia della filosofia, di politica, letteratura, scienze, musica, che sono la testimonianza della vastità degli interessi. La posizione filosofica di Plutarco è una espressione tipica della cultura della tarda età ellenistico-romana, nella quale in un comune e spesso generico sfondo platonico rifluiscono suggestioni e influenze di varia origine, così filosofica (aristotelismo, stoicismo, neopitagorismo) come religiosa (in particolare religioni misteriche orientaleggianti). In campo etico, seguendo le concezioni aristoteliche, distingue nell'anima tre aspetti e pone il canone della condotta nella medietà delle passioni dominate e controllate dalla parte razionale. Da ciò deriva la tranquillità spirituale (εὐϑυμία) elevata a virtù suprema. Lo stesso principio deve ispirare anche la politica che è "l'arte di placare le folle e di conservare la pace". Perciò egli accetta il dominio romano, in cui vede adempiute le esigenze di una politica di pace. Da tale atteggiamento politico verso Roma è guidata la costruzione delle Vite parallele scritte per dimostrare le analogie, ma anche le differenze, fra gli eroi greci e romani. Oltre a 4 biografie isolate (quelle di Artaserse II, Arato di Sicione, Galba, Otone) sono esaminate le vite di 22 coppie di personaggi, uno greco e uno romano (Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, ecc.), di cui all'inizio, nel Proemio, sono messe in luce le affinità, e alla fine, nel paragone (σύγκρισις) le differenze. La tradizione dei rapporti fra Greci e Romani era già nelle Imagines di Varrone e nelle Vitae di Cornelio Nepote; ma la novità di Plutarco consiste nell'accentuare nel confronto l'esistenza di due mondi, due culture, due civiltà che si integrano reciprocamente nell'Impero Romano. Bisogna però osservare che era un greco giustamente impegnato a recuperare e far rivivere la passata grandezza della Grecia. Il tratto caratteristico delle Vite è l'indagine dell'intera storia di Roma e della Grecia attraverso l'ethos dei personaggi, che sono sì protagonisti di grandi imprese, ma si impongono alla nostra attenzione anche per particolari di minor rilievo e per aspetti poco conosciuti della loro personalità e umanità.
Da tempo si è osservato che sussiste una differenza fondamentale tra le biografie di Svetonio e quelle di Plutarco. Svetonio descrive il carattere del protagonista elencando categorie di fatti in ordine artificiale, P. narra invece l'intera vita del protagonista per ordine cronologico (non senza però indugiare in taluni punti a definire l'indole del personaggio)
 Ebbe fortuna già tra i contemporanei; nel Medioevo bizantino fu apprezzato più come filosofo che come storico, e la sua fama si diffuse anche in paesi di lingua non greca. L'Umanesimo guarda a P. tanto come testimonianza di una tradizione della filosofia religiosa antica, quanto come maestro di vita e di virtù civili; si inizia così una nuova fortuna di P., autore di "vite" esemplari (egli stesso affermava di scrivere "non storie, ma vite"): l'etica dell'onore e della magnanimità trovò in lui i suoi modelli. La traduzione delle opere di P. fatta da I. Amyot (1559) fece testo presso i Francesi (Montaigne, Corneille, Racine) e, ritradotta, presso gli Inglesi (fino a Shakespeare). Nel sec. 18° si cercarono fra i personaggi di P. gli eroi della libertà, e a essi si ispirarono tanto Rousseau che Alfieri; minore la fortuna di P. in Germania, ove già si delineava una forte tendenza anticlassicistica, e in Inghilterra, in cui attraverso Th. Macaulay si svalutava la sua importanza di fonte storica. 

domenica 26 febbraio 2017

ALÉXANDROS BASILEUS

LA STORIA E IL MITO SECONDO PLUTARCO
di Paola Scollo

È un’immagine singolare quella che le fonti ci tramandano di Alessandro Magno. Giovane dall’indole impetuosa e tenace, comandante fiero e ambizioso, dotato di straordinario talento tattico e strategico, spirito nobile e fiero, teso verso ogni forma di sapere, animo energico e spietato sul campo di battaglia con i nemici, magnanimo e generoso verso gli amici.

Alessandro è uno dei personaggi più controversi dell’antichità. Un personaggio contraddittorio che, proprio per questa contraddittorietà, ha esercitato ammirazione e fascino in ogni epoca. Un fascino che oltrepassa i limiti della storia per divenire mito. Il sogno di realizzare un unico impero per un unico popolo, di custodire e di diffondere la cultura ellenica lo guida sino agli estremi confini del mondo. In pochi anni, si pone alla guida di un impero sconfinato, che si estende dall’Adriatico all’Oceano Indiano, dal Danubio e dal Caucaso alla Nubia. Le sue mirabili imprese sono state narrate da Diodoro Siculo, Arriano, Curzio Rufo. Di notevole valore è la testimonianza di Plutarco nelle Vite parallele.

L’eccezionalità di Alessandro ha inizio ancor prima della sua nascita: si pone nel momento stesso del suo concepimento. Narra Plutarco che, alla vigilia delle nozze, Olimpiade sognò che dal suo ventre, colpito da fulmine, si propagavano fiamme. Successivamente, a Filippo parve di imprimere sul ventre della sposa un sigillo dalla forma di leone.

«Dato che nessun sigillo si imprime su ciò che è vuoto», l’indovino Aristandro di Telmesso immaginò che Olimpiade fosse incinta di un «ragazzo animoso e dalla natura di leone» (cap. II). Il “figlio del sogno”, Aléxandros, nacque nel mese di Ecatombeone, nel giorno in cui il tempio di Artemis a Efeso venne distrutto da un incendio. «Un evento naturale», secondo Egesia di Magnesia, visti gli sforzi compiuti dalla dea per portarlo alla luce. Nato in circostanze straordinarie, era inevitabile che Alessandro fosse destinato a una vita straordinaria. Proprio per queste ragioni, nell’incipit del bios dedicato all’eroe, Plutarco spiega di voler porre attenzione soprattutto ai segni (semeia) dell’anima.

Dopo aver riferito gli aneddoti sulla nascita di Alessandro, Plutarco fornisce rapide indicazioni sull’aspetto fisico, espressione del carattere eccezionale. A tal proposito, ricorda che Alessandro aveva ritenuto opportuno farsi raffigurare solo da Lisippo, l’unico artista in grado di riprodurre, in modo accurato, «quello che successori e amici cercarono sempre di imitare, ossia la posizione del collo, lievemente piegato a sinistra, e la dolcezza dello sguardo» (cap. IV).

Alessandro aveva una pelle chiara, rossa sul petto e sul volto, che emanava un gradevolissimo profumo. La temperatura corporea, «sempre molto alta, quasi da febbre» doveva essere, con ogni probabilità, motivo dell’animo collerico e incline al bere. Filippo, che ben conosceva la natura inflessibile del figlio, aveva scelto come maestro Aristotele di Stagira, «pagandogli un alto onorario, degno di lui» (cap. VII). Fu proprio Aristotele a inculcare in Alessandro l’amore per la grecità e per i classici. Secondo la testimonianza di Plutarco, il giovane ammirava Aristotele non meno di Filippo, perché «il padre gli aveva dato la vita, mentre il filosofo gli aveva insegnato a vivere rettamente».

Era solito, infatti, ripetere: «Io vorrei distinguermi per la conoscenza di ciò che è meglio, più che per la potenza» (cap. VII). Inizialmente, Filippo provava soddisfazione per le imprese di Alessandro, al punto tale da essere contento «che i Macedoni chiamassero Alessandro re (basileus) e lui stesso, Filippo, generale, (strategos)». Ben presto, però, fra i due emersero forti motivi di contrasto, aggravati dal comportamento di Olimpiade, «donna gelosa e collerica» (cap. IX). La rottura avvenne in occasione delle nozze di Filippo con Cleopatra. Portando con sé la madre, Alessandro abbandonò la Macedonia per stabilirsi in Illiria. Successivamente, in molti pensarono che dietro all’assassinio di Filippo per mano di Pausania si celasse proprio Alessandro.

Ancora ventenne, Alessandro si trovò a ereditare un regno «sul quale si concentravano invidie, odi e pericoli» (cap. XI). Pur avendo un carattere impetuoso, il giovane mostrava di possedere temperanza (egkrateia) e sapienza (sophrosyne), requisiti indispensabili per non cedere ai piaceri del corpo. In cima ai suoi pensieri, «alti e magnanimi più di quanto prevedesse l’età», stava la brama di gloria.

Proprio per questo motivo, Alessandro non manifestava gioia per le vittorie paterne: «Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà l’opportunità di compiere con voi alcuna importante, luminosa impresa». In sintesi, Alessandro «non aspirava a piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, ritenendo che quanto più riceveva dal padre, tanto meno avrebbe guadagnato da solo. Voleva ereditare un regno che non gli offrisse ricchezze, lusso, guadagni, ma lotte, guerre, fama» (cap. V).

Di qui la spedizione contro Dario per ampliare i confini dell’impero e, soprattutto, per realizzare la completa fusione del popolo macedone con quello persiano. A tal proposito, Plutarco nota che il coraggio che Alessandro infondeva nelle sue azioni rendeva imbattibile la sua ambizione: l’alto sentire (megalopsykia) sosteneva e alimentava la volontà d’agire, ponendosi a fondamento di una vita breve, ma costellata di splendide e mirabili imprese (cap. XXVI).

Plutarco ricorda che, nei rapporti con gli amici, Alessandro dava prova di grande benevolenza e stima (cap. XLI): la sua generosità procedeva, in parallelo, con l’accrescimento delle ricchezze (cap. XXXIX). In tal modo, ben presto «si spogliò della maggior parte dei possessi di Macedonia» (cap. XV). Un episodio particolarmente significativo è quello della morte di Efestione.

«Alessandro non riuscì a placare il suo dolore: fece tagliare la criniera a cavalli e muli, in segno di lutto, abbatté i merli delle mura delle città vicine, fece crocifiggere il medico, vietò nel campo musica di flauti e di ogni genere di strumento musicale finché giunse ad Ammone un responso dell’oracolo che raccomandava di onorare Efestione, sacrificando come a un eroe. Per allontanare il dolore Alessandro ricorse alla guerra e, come se andasse a caccia di uomini, sottomise le tribù dei Cossei, facendo uccidere tutti i giovani in età di combattere. Questa strage ebbe nome disacrificio funebre per Efestione» (cap. LXXII).

Anche al paragone con altri sovrani, Alessandro si distingueva per grandezza d’animo e generosità: basti pensare all’episodio dell’incontro con il re Tassile (cap. XLIX) o con il re Poro (cap. LX). E fu, soprattutto, dopo la vittoria su Dario che Alessandro mostrò di possedere grande pietas. Narra, infatti, Plutarco che Alessandro consentì alla madre, alla moglie e alle figlie del sovrano «di vivere una vita appartata, non da prigioniere, ma come se fossero custodite in un asilo sacro e inviolabile» (cap. XXI). E di fronte alla fastosa sepoltura resa alla moglie, morta di parto, Dario fu costretto ad ammettere: «Tanto è nobile Alessandro vittorioso, quanto è tremendo allorquando combatte» (cap. XXX).

Sul campo di battaglia sembrava che Alessandro agisse come un folle «guidato da sconsideratezza più che da raziocinio» (cap. XVI). Durante la spedizione contro Dario, si espose a notevoli rischi, riportando numerose ferite; tuttavia, secondo Plutarco, i danni maggiori giunsero dalla scarsità di viveri e dalle pessime condizioni climatiche. Alessandro tentava di opporre al destino avverso virtù e forza, ritenendo che «nulla fosse invincibile per gli audaci, né sicuro per i vili» (cap. LVIII).

I suoi successi non erano dovuti esclusivamente alla sorte (tyche), che pure gli aveva concesso «una posizione favorevole», ma alle sue straordinarie doti (cap. XX). La vittoria su Dario ebbe un grande impatto, soprattutto in Grecia: Alessandro divenne il re del più grande impero mai esistito. E pare che, a partire da quel momento, pretese di essere appellato re, basileus, dell’Asia.

Tuttavia, non si sentì appagato. La sete di conquista e il desiderio (pothos) della componente irrazionale dell’animo condussero Alessandro in Egitto, nell’oasi di Sïwah, dove dall’oracolo di Ammone ebbe certezza della sua origine divina. Racconta, infatti, Plutarco che il profeta, volendo rivolgersi ad Alessandro con affetto, invece di esclamare «o paidion», «o figlio», data la imperfetta conoscenza della lingua, pronunciò «o paidios», «o figlio di Zeus». Si diffuse così la notizia che il dio avesse riconosciuto in Alessandro il figlio di Zeus. Secondo Plutarco, Alessandro non manifestava eccessivo orgoglio per la sua divinità. Al contrario, si serviva di questa credenza per tenere assoggettati gli altri. In generale, «si comportava con i barbari con superbia, come fosse assolutamente persuaso della sua nascita e origine divina; con i Greci, invece, dichiarava la sua divinità con molta moderazione e cautela» (cap. XXVIII).

Fu nella regione dei Parti che, godendo di un periodo di riposo, Alessandro indossò per la prima volta l’abito barbaro: «In questo modo, voleva adattarsi ai costumi del paese e, al contempo, cercare di introdurre presso i Macedoni l’abitudine alla genuflessione, avvezzandoli progressivamente al mutamento del suo modo di vivere». Plutarco precisa che Alessandro non adottò il modo di vestire dei Medi, «del tutto barbaro e strano», né i larghi pantaloni, il caffetano e la mitra (cap. XLV). Scelse, piuttosto, una «indovinata commistione della foggia dei Medi e di quella dei Persiani, più modesta dell’una e più composta dell’altra». Con ogni probabilità, inizialmente, adoperava questo abbigliamento soltanto per ricevere i barbari, accogliere gli amici, uscire a cavallo.

L’aristocrazia macedone considerava il culto del sovrano una forma di pratica autocratica e, in generale, tendeva a ostacolare il processo di orientalizzazione dei costumi macedoni. Alla fine, i Macedoni «pieni di ammirazione per tutte le altre virtù» furono costretti a cedere. Alessandro riteneva che, avvicinando ulteriormente il mondo persiano a quello macedone, avrebbe fortificato il suo potere. Di qui la decisione di istruire nelle armi, nella lingua e cultura greca, trentamila giovani persiani (XLVII). Tale progetto rimase però incompiuto: le tre componenti fondamentali dell’impero, quella macedone, asiatica ed ellenica, non giunsero mai a fondersi del tutto. Né, con ogni probabilità, Alessandro cercò realmente di fonderle: era lui stesso, in qualità di primus inter pares per i Macedoni, di basileus per i popoli d’Asia e di eghemón per i Greci, a rendere unito l’impero.

Secondo il racconto di Plutarco, col trascorrere del tempo, Alessandro divenne sfiduciato nei confronti della divinità, lasciandosi sempre più condizionare da presagi divini: «non c’era fatto insolito e strano, per piccolo che fosse, che non considerasse portentoso; la gente faceva sacrifici, purificazioni e traeva auspici, generando in Alessandro paura e stoltezza» (cap. LXXV). Infine, nutriva sospetti nei confronti degli amici: temeva soprattutto Antipatro e i suoi figli, Iolao e Cassandro.

Alessandro fu progressivamente travolto da un vortice di invidie e gelosie. Al momento della morte, a Babilonia, il 10 giugno del 323 a.C., nessuno avanzò sospetti. Narra, però, Plutarco che, a distanza di sei anni, Olimpiade fece disperdere le ceneri di Iolao, accusato di aver avvelenato Alessandro. Il sogno di un impero universale era ormai definitivamente tramontato insieme ad Aléxandros, il “figlio del sogno”.


Riferimenti bibliografici:

H. Bengtson, Griechische Geschichte: von den Anfängen bis in die römische Kaiserzeit, München 1977, trad. it. Bologna 1989.T. E. Duff, Plutarch’s Lives, Exploring Virtue and Vice, Oxford 1999.D. Magnino (ed.), Plutarco, Alessandro, Milano 1987.C.B.R. Pelling, Plutarch’s Methods of work in the Roman Lives, «The Journal of Hellenic Studies» XCIX (1979), 74 - 96.C.B.R. Pelling, Plutarch: Roman Heroes and Greek culture, in M. Griffin, J. Barnes, Philosophia Togata, Oxford 1989, 199ss.B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica, Pisa 2003K. Ziegler, Plutarch von Chaironeia, in RE XXI Stuttgart 1951, trad. it. Brescia 1965.

sabato 25 febbraio 2017

dichiarazioni programmatiche



Τὸν Ἀλεξάνδρου τοῦ βασιλέως βίον καὶ τὸν Καίσαρος, ὑφ' οὗ κατελύθη Πομπήϊος, ἐν τούτῳ τῷ βιβλίῳ γράφοντες, διὰ τὸ πλῆθος τῶν ὑποκειμένων πράξεων οὐδὲν ἄλλο προεροῦμεν ἢ παραιτησόμεθα τοὺς ἀναγινώσκοντας, ἐὰν μὴ πάντα μηδὲ καθ' ἕκαστον ἐξειργασμένως τι τῶν περιβοήτων ἀπαγγέλλωμεν, ἀλλ' ἐπιτέμνοντες τὰ πλεῖστα, μὴ συκοφαντεῖν. 

οὔτε γὰρ ἱστορίας γράφομεν, ἀλλὰ βίους, οὔτε ταῖς ἐπιφανεστάταις πράξεσι πάντως ἔνεστι δήλωσις ἀρετῆς ἢ κακίας, ἀλλὰ πρᾶγμα βραχὺ πολλάκις καὶ ῥῆμα καὶ παιδιά τις ἔμφασιν ἤθους ἐποίησε μᾶλλον ἢ μάχαι μυριόνεκροι καὶ παρατάξεις αἱ μέγισται καὶ πολιορκίαι πόλεων. ὥσπερ οὖν οἱ ζῳγράφοι τὰς ὁμοιότητας ἀπὸ τοῦ προσώπου καὶ τῶν περὶ τὴν ὄψιν εἰδῶν οἷς ἐμφαίνεται τὸ ἦθος ἀναλαμβάνουσιν, ἐλάχιστα τῶν λοιπῶν μερῶν φροντίζοντες, οὕτως ἡμῖν δοτέον εἰς τὰ τῆς ψυχῆς σημεῖα μᾶλλον ἐνδύεσθαι, καὶ διὰ τούτων εἰδοποιεῖν τὸν ἑκάστου βίον, ἐάσαντας ἑτέροις τὰ μεγέθη καὶ τοὺς ἀγῶνας.

quando-un-uomo-diventa-leggenda

venerdì 24 febbraio 2017

ritratto di alessandro

 Τὴν μὲν οὖν ἰδέαν τοῦ σώματος οἱ Λυσίππειοι μάλιστα τῶν ἀνδριάντων ἐμφαίνουσιν, ὑφ' οὗ μόνου καὶ αὐτὸς ἠξίου πλάττεσθαι. καὶ γὰρ ‹ὃ› μάλιστα πολλοὶ τῶν διαδόχων ὕστερον καὶ τῶν φίλων ἀπεμιμοῦντο, τήν τ' ἀνάτασιν τοῦ αὐχένος εἰς εὐώνυμον ἡσυχῇ κεκλιμένου καὶ τὴν ὑγρότητα τῶν ὀμμάτων, διατετήρηκεν ἀκριβῶς ὁ τεχνίτης. Ἀπελλῆς δὲ γράφων ‹αὐ›τὸν κεραυνοφόρον, οὐκ ἐμιμήσατο τὴν χρόαν, ἀλλὰ φαιότερον καὶ πεπινωμένον ἐποίησεν. ἦν δὲ λευκός, ὥς φασιν· ἡ δὲ λευκότης ἐπεφοίνισσεν αὐτοῦ περὶ τὸ στῆθος μάλιστα καὶ τὸ πρόσωπον.
ὅτι δὲ τοῦ χρωτὸς ἥδιστον ἀπέπνει καὶ τὸ στόμα κατεῖχεν εὐωδία καὶ τὴν σάρκα πᾶσαν, ὥστε πληροῦσθαι τοὺς χιτωνίσκους, ἀνέγνωμεν ἐν ὑπομνήμασιν Ἀριστοξενείοις· αἰτία δ' ἴσως ἡ τοῦ σώματος κρᾶσις, πολύθερμος οὖσα καὶ πυρώδης· ἡ γὰρ εὐωδία γίνεται πέψει τῶν ὑγρῶν ὑπὸ θερμότητος, ὡς οἴεται Θεόφραστος.

alessandro e il mare

giovedì 23 febbraio 2017

Alessandro e il cavallo bucefalo

alessandro doma bucefalo

Ἐπεὶ δὲ Φιλονίκου τοῦ Θεσσαλοῦ τὸν Βουκεφάλαν ἀγαγόντος ὤνιον τῷ Φιλίππῳ τρισκαίδεκα ταλάντων, κατέβησαν εἰς τὸ πεδίον δοκιμάσοντες τὸν ἵππον, ἐδόκει τε χαλεπὸς εἶναι καὶ κομιδῇ δύσχρηστος, οὔτ' ἀναβάτην προσιέμενος οὔτε φωνὴν ὑπομένων τινὸς τῶν περὶ τὸν Φίλιππον, ἀλλ' ἁπάντων κατεξανιστάμενος, δυσχεραίνοντος δὲ τοῦ Φιλίππου καὶ κελεύοντος ἀπάγειν ὡς παντάπασιν ἄγριον καὶ ἀκόλαστον, παρὼν ὁ Ἀλέξανδρος εἶπεν· "οἷον ἵππον ἀπολλύουσι, δι' ἀπειρίαν καὶ μαλακίαν χρήσασθαι μὴ δυνάμενοι".τὸ μὲν οὖν πρῶτον ὁ Φίλιππος ἐσιώπησε· πολλάκις δ' αὐτοῦ παραφθεγγομένου καὶ περιπαθοῦντος, "ἐπιτιμᾷς σὺ" ἔφη "πρεσβυτέροις ὥς τι πλέον αὐτὸς εἰδὼς ἢ μᾶλλον ἵππῳ χρήσασθαι δυνάμενος;" "τούτῳ γοῦν" ἔφη "χρησαίμην ἂν ἑτέρου βέλτιον." "ἂν δὲ μὴ χρήσῃ, τίνα δίκην τῆς προπετείας ὑφέξεις;" "ἐγὼ νὴ Δί'"εἶπεν"ἀποτείσω τοῦ ἵππου τὴν τιμήν."
γενομένου δὲ γέλωτος, εὐθὺς προσδραμὼν τῷ ἵππῳ καὶ παραλαβὼν τὴν ἡνίαν, ἐπέστρεψε πρὸς τὸν ἥλιον, ἐννοήσας ὅτι τὴν σκιὰν προπίπτουσαν καὶ σαλευομένην ὁρῶν πρὸ αὑτοῦ διαταράττοιτο. μικρὰ δ' αὐτῷ παρακαλπάσας καὶ καταψήσας, ὡς ἑώρα πληρούμενον θυμοῦ καὶ πνεύματος, ἀπορρίψας ἡσυχῇ τὴν χλαμύδα καὶ μετεωρίσας αὑτόν, ἀσφαλῶς περιέβη. καὶ μικρὰ μὲν περιλαβὼν ταῖς ἡνίαις τὸν χαλινόν, ἄνευ πληγῆς καὶ σπαραγμοῦ προσανέστειλεν· ὡς δ' ἑώρα τὸν ἵππον ἀφεικότα τὴν ἀπειλήν, ὀργῶντα δὲ πρὸς τὸν δρόμον, ἀφεὶς ἐδίωκεν, ἤδη φωνῇ θρασυτέρᾳ καὶ ποδὸς κρούσει χρώμενος. τῶν δὲ περὶ τὸν Φίλιππον ἦν ἀγωνία καὶ σιγὴ τὸ πρῶτον· ὡς δὲ κάμψας ὑπέστρεψεν ὀρθῶς σοβαρὸς καὶ γεγηθώς, οἱ μὲν ἄλλοι πάντες ἀνηλάλαξαν, ὁ δὲ πατὴρ καὶ δακρῦσαί τι λέγεται πρὸς τὴν χαράν, καὶ καταβάντος αὐτοῦ τὴν κεφαλὴν φιλήσας ὦ παῖ φάναι, ζήτει σεαυτῷ βασιλείαν ἴσην· Μακεδονία γάρ σ' οὐ χωρεῖ.

mercoledì 22 febbraio 2017

Alessandro in Dante


nel XII canto dell'Inferno  dante si trova nel primo girone del settimo cerchio luogo in cui sono puniti i violenti contro il prossimo. qui nei versi 100 seguenti il centauro mostra a Dante la pensa di alcuni tiranni come Dioniso di Siracusa e Alessandro. sebbene in un primo momento alcuni critici abbiano visto in questa figura alessandro magno, adesso si ritiene meglio si tratti di Alessandro di Fere, dal momento che Dante sia nel Convivium che nel De Monarchia citi positivamente Alessandro Magno.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: "E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. 105

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni. 108





nel XIV canto, invece,  luogo in cui sono puniti i violenti contro Dio, nel descrivere una pioggia infuocata dante fa una similitudine dotta mutuata da una lettera di Alessandro magno al maestro Aristotele. Il poeta paragona la pioggia continua a quella di cui scrive Alessandro quando in India ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo per estinguere le fiammelle lasciate dalla pioggia.



Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento. 30

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde, 33

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo: 36

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. 

parafrasi del XIV canto dell'inferno

Per un approfondimento è possibile consultare l'enciclopedia dantesca (1970) treccani alla voce Alessandro Magno . treccani.it/enciclopedia/alessandro-magno

martedì 21 febbraio 2017

Alessandro in Pascoli

Nei suoi Poemi Conviviali, Giovanni Pascoli dedica una poesia ad Alessandro Magno, come una delle figure più enigmatiche e celebri mai esistite e mai raccontate. Da sempre, attorno al giovane condottiero, aleggia un’aura di mistero e fascino, dovuta al suo impeto, alla sua straordinaria giovinezza e allo stesso tempo alla spiccata capacità governativa e di dux, ma anche alle oscure circostanze della sua morte e all’irrintracciabile luogo di sepoltura.
Pascoli proietta il Conquistatore in un’area quasi romantica, nel senso letterario del termine. Alessandro è appena giunto alle rive dell’Indo, ultimo baluardo di quello che poi sarà il suo impero. Il suo viaggio attraverso l’Asia è concluso, guarda davanti a sé e non c’è più quel sogno, quell’ignoto raggiungibile che lo spingeva a proseguire il cammino. Non vi è più nulla da conquistare se non la luna, che però splende sospesa nel cielo, remota ed inaccessibile alla brama del Macedone.
 […] Ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente
La prima parte del poema è strutturata come un discorso, quello di Alessandro alle sue truppe. Pascoli, attraverso le parole del protagonista ne ripercorre le tappe del viaggio. Un viaggio spinto da un flauto sacro, la cui musica risuona incessantemente nella mente del giovane, il quale, con continui ostacoli davanti agli occhi, sogna di varcarli. E così fa. Da qui scaturisce l’angoscia al cospetto del Nulla, al confine ultimo del mondo noto agli antichi, dopo aver superato ostacoli, che forse era meglio solo sognare di varcare. E’ questo lo scacco, il non poter andare oltre, ma soprattutto la consapevolezza voluttuosa di questa situazione.
[…] piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.
 Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.
 Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,
come trotto di mandrie d’elefanti.
In quest’immagine suggestiva di scacco del desiderio, di sogno bruscamente interrotto, c’è già il presagio di morte. Morte che colpirà improvvisamente il giovane nel 323 a.C. a Babilonia, lasciando un impero senza imperatore, un mondo senza Alessandro. Lo stesso funesto presagio sta pure nella possibile soluzione che Pascoli dà, coerentemente alla sua poetica, a questa perennemente insoddisfatta brama di conquista, a questo impetuoso sogno d’eroe: nel nido.
 […] Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favello d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
 le grandi quercie bisbigliar sul monte.
La madre è evocata dal poeta con profonda tenerezza, mentre abita la casa lontana dove ci si affaccenda in modeste e rassicuranti operazioni quotidiane, dove si può sognare un’impresa, senza arrivare alla delusione della fine. Anche a lei, come al figlio, l’oscurità appare come un terribile presagio di morte.
In quest’atmosfera di desiderio insoddisfatto, grandi imprese, morte e pianto, Alessandro si caratterizza non più come eroe classico, ma uomo del moderno, perdendo la perfezione a favore di un’insicurezza e una voluttà decadenti.