martedì 21 febbraio 2017

Alessandro in Pascoli

Nei suoi Poemi Conviviali, Giovanni Pascoli dedica una poesia ad Alessandro Magno, come una delle figure più enigmatiche e celebri mai esistite e mai raccontate. Da sempre, attorno al giovane condottiero, aleggia un’aura di mistero e fascino, dovuta al suo impeto, alla sua straordinaria giovinezza e allo stesso tempo alla spiccata capacità governativa e di dux, ma anche alle oscure circostanze della sua morte e all’irrintracciabile luogo di sepoltura.
Pascoli proietta il Conquistatore in un’area quasi romantica, nel senso letterario del termine. Alessandro è appena giunto alle rive dell’Indo, ultimo baluardo di quello che poi sarà il suo impero. Il suo viaggio attraverso l’Asia è concluso, guarda davanti a sé e non c’è più quel sogno, quell’ignoto raggiungibile che lo spingeva a proseguire il cammino. Non vi è più nulla da conquistare se non la luna, che però splende sospesa nel cielo, remota ed inaccessibile alla brama del Macedone.
 […] Ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente
La prima parte del poema è strutturata come un discorso, quello di Alessandro alle sue truppe. Pascoli, attraverso le parole del protagonista ne ripercorre le tappe del viaggio. Un viaggio spinto da un flauto sacro, la cui musica risuona incessantemente nella mente del giovane, il quale, con continui ostacoli davanti agli occhi, sogna di varcarli. E così fa. Da qui scaturisce l’angoscia al cospetto del Nulla, al confine ultimo del mondo noto agli antichi, dopo aver superato ostacoli, che forse era meglio solo sognare di varcare. E’ questo lo scacco, il non poter andare oltre, ma soprattutto la consapevolezza voluttuosa di questa situazione.
[…] piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.
 Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.
 Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,
come trotto di mandrie d’elefanti.
In quest’immagine suggestiva di scacco del desiderio, di sogno bruscamente interrotto, c’è già il presagio di morte. Morte che colpirà improvvisamente il giovane nel 323 a.C. a Babilonia, lasciando un impero senza imperatore, un mondo senza Alessandro. Lo stesso funesto presagio sta pure nella possibile soluzione che Pascoli dà, coerentemente alla sua poetica, a questa perennemente insoddisfatta brama di conquista, a questo impetuoso sogno d’eroe: nel nido.
 […] Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favello d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
 le grandi quercie bisbigliar sul monte.
La madre è evocata dal poeta con profonda tenerezza, mentre abita la casa lontana dove ci si affaccenda in modeste e rassicuranti operazioni quotidiane, dove si può sognare un’impresa, senza arrivare alla delusione della fine. Anche a lei, come al figlio, l’oscurità appare come un terribile presagio di morte.
In quest’atmosfera di desiderio insoddisfatto, grandi imprese, morte e pianto, Alessandro si caratterizza non più come eroe classico, ma uomo del moderno, perdendo la perfezione a favore di un’insicurezza e una voluttà decadenti. 

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