venerdì 17 febbraio 2017

clito e alessandro

 Clito fu invitato a un solenne e interminabile banchetto. Durante il quale il re, sovreccitato per le abbondanti libagioni, iniziò ad esaltare le imprese compiute esagerando i propri meriti, indisponente pure alle orecchie di quelli che ritenevano si raccontasse la verità. I più anziani rimasero tuttavia in silenzio fino a che, messosi a denigrare le gesta di Filippo, si vantò che la famosa vittoria di Cheronea la si doveva attribuire a lui e che la gloria di una così grande impresa gli era stata scippata dalla malevola invidia del padre. [...] I giovani ascoltavano contenti queste e altre simili parole, ai più anziani riuscivano sgradite, particolarmente per quanto concerneva Filippo, sotto cui avevano vissuto più a lungo, allorché Clito, di certo neppure lui troppo sobrio, rivolto ai convitati sottostanti, prese a recitare versi di Euripide – in modo tale che il re potesse percepirne più il suono che le parole –, dove si affermava che i Greci avevano introdotto la cattiva consuetudine di scrivere sui trofei unicamente i nomi di re: in effetti ci si appropriava di una gloria conquistata col sangue altrui. Il sovrano allora, sospettando che il discorso fosse alquanto denigratorio, cominciò a chiedere ai vicini che cosa avessero sentito dire da Clito. E mentre quelli si ostinavano a tacere, Clito rammentò, con tono di voce in crescendo, le imprese di Filippo e le guerre condotte in Grecia, anteponendole tutte quante alle presenti. Ne scaturì un battibecco fra più giovani e anziani, e il re, pur dando l’impressione di ascoltare pacatamente gli argomenti con i quali Clito sviliva le sue glorie, aveva concepito un’ira furibonda. Ma quando pareva che sarebbe stato in grado di dominarsi, se Clito avesse posto fine al suo discorso improntato all’insolenza, poiché quello non la smetteva affatto, lui s’andava vieppiù esasperando. E ormai Clito osava difendere persino Parmenione(1).
[...] Fra tutte le insinuazioni buttate là senza la benché minima riflessione, nessuna aveva urtato il sovrano più del ricordo laudativo di Parmenione. Represse tuttavia il proprio risentimento, limitandosi a intimare a Clito di abbandonare il banchetto. [...] Mentre veniva trascinato, sommatasi pure l’ira all’aggressività iniziale, Clito gridava d’aver difeso col proprio petto le spalle di Alessandro, ma ora, passato il momento di un così grande favore, ne riusciva sgradito anche il ricordo. Gli rinfacciava pure l’assassinio di Attalo e infine, irridendo l’oracolo di Giove che Alessandro rivendicava come padre affermava di aver detto al re cose più veritiere che non suo padre. [...] [I compagni cercarono di trattenere Alessandro in preda all’ira, ma il re], incapace di dominare le proprie pulsioni, si precipitò nel vestibolo del padiglione reale e, strappata l’asta a una sentinella di turno, si mise sulla soglia per cui dovevano necessariamente uscire gli ospiti del suo banchetto. Se n’erano andati tutti gli altri, ultimo stava uscendo Clito, senza lume. Il re gli domandò chi fosse. Anche la voce tradiva l’efferatezza del delitto che s’apprestava a compiere. E l’altro, memore non già della propria ira, ma di quella del re, rispose di essere Clito e che usciva dal banchetto. Mentre pronunciava tali parole, Alessandro gli trafisse il fianco con l’asta e, lordato del sangue del morente, disse: «Ora va’ da Filippo e da Parmenione e da Attalo». [...] Mal provvide la natura all’indole umana, ché il più delle volte non ponderiamo bene le cose prima che accadano ma quando sono già avvenute. Infatti il re, sbollita l’ira dal suo animo, svanita pure l’ebbrezza, con tardiva riflessione mise a fuoco la gravità del suo gesto [...]. Estratta quindi l’asta dal corpo di Clito che giaceva a terra, Alessandro la rivolse contro se stesso; l’aveva già avvicinata al petto quando le guardie si precipitarono e, malgrado opponesse resistenza, gliela strapparono di mano: e dopo averlo sollevato di peso lo portarono nella sua tenda.
Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, Rizzoli, Milano 2005 
(1) Parmenione: Filota, il figlio di Parmenione, uno dei più autorevoli generali macedoni, già collaboratore di Filippo in molte imprese, era stato accusato di complottare contro Alessandro. Il re perciò lo fece giustiziare e poi ordinò di uccidere anche Parmenione. Lepre, Petraccone, Voci dell’Antichità, © Zanichelli editore 2010

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